COP26 e Dolomiti: “la sfida sarà la cooperazione”

Anche gli occhi di coloro che vivono e frequentano il Patrimonio Mondiale delle Dolomiti erano puntati sulla Cop26 di Glasgow. Abbiamo chiesto una lettura dei risultati della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Roberto Barbiero, climatologo dell’Agenzia Provinciale per la Protezione dell’Ambiente, referente tecnico per la Provincia autonoma di Trento all’interno del Tavolo Interregionale sulla Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici e all’interno dell’Action Group 8 della Strategia dell’UE per la regione alpina (EUSALP).

Glasgow: non un successo, nemmeno un fallimento

Gli impegni assunti a conclusione della Cop26 di Glasgow appaiono troppo timidi per poter parlare di un successo. Tuttavia anche il termine fallimento non appare appropriato, considerando la posizioni di partenza. Qual è la sua valutazione?

“C’erano grandi aspettative: a sei anni di distanza dall’Accordo sul clima di Parigi era il momento di aggiornare i piani volontari di riduzione delle emissioni di gas serra con obiettivi ben più ambiziosi e se tra i grandi emettitori alcuni Paesi come la Cina e l’India non hanno nemmeno presentato un proprio piano, sostituendolo con una semplice dichiarazione di impegno, altri lo hanno rivisto al ribasso, come il Brasile, mentre l’Europa e gli Stati Uniti hanno incrementato il proprio impegno confermando in particolare l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050.

Se dunque consideriamo questo punto di partenza, dobbiamo riconoscere che alcune decisioni finali appaiono relativamente positive: c’è, se non altro, il riconoscimento dell’importanza di perseguire l’obiettivo di contenere entro 1,5°C l’aumento della temperatura globale entro la fine del secolo rispetto al periodo pre industriale, come auspicato dall’Accordo di Parigi e come raccomandato dagli scienziati, al fine di limitare gli impatti dei cambiamenti climatici che sarebbero invece ben più gravi perseguendo la soglia di 2°C di aumento. Tuttavia mentre i nuovi piani volontari, ammesso che saranno realmente messi in atto, potranno probabilmente consentire di non oltrepassare la soglia dei 2°C, non sono assolutamente sufficienti per contenere il riscaldamento entro 1.5°C”.

Insomma sul fronte della mitigazione registriamo dei passi avanti, anche se non sufficienti. Su fronte dei finanziamenti, dei regolamenti e dell’adattamento?

“Sul fronte dei finanziamenti, in particolare alle economie dei Paesi in via di sviluppo, meno responsabili ma più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, l’accordo raggiunto risulta ancora troppo vago e insufficiente mentre un obiettivo che può dirsi sostanzialmente raggiunto è quello dei regolamenti. Dopo Parigi dovevano essere ancora completate le “regole del gioco” per mettere in pratica l’accordo e per monitorare gli impegni volontari; ora invece ci sono delle regole comuni per tutti e questo è un risultato non banale, così come quello sulla cooperazione sugli impegni di mitigazione, ovvero il mercato del carbonio e l’avvio del tavolo di lavoro per i meccanismi non di mercato come la Carbon Tax.

Sì è infine riconosciuta come fondamentale la questione dell’adattamento ai cambiamenti climatici per affrontare gli impatti ormai inevitabili; manca però un impegno economico chiaro”.

La COP26… vista da qui

Da abitanti o frequentatori di un territorio fragile come quello montano, nel quale gli effetti del cambiamento sono ben visibili (dalla fusione dei ghiacciai agli eventi meteorologici sempre più violenti e impattanti), con che aspettative dobbiamo guardare a queste conferenze internazionali e all’attuazione degli accordi presi?

“In primo luogo c’è una chiara consapevolezza scientifica sul livello di impatto dei cambiamenti climatici sugli ambienti di montagna al punto che già nel 2018 il Tavolo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) aveva dedicato un rapporto specifico alla criosfera e agli oceani che includeva un’analisi degli impatti sugli ecosistemi montani.  Se la media mondiale di aumento della temperatura rispetto al periodo preindustriale è di circa 1.1°C, l’arco alpino fa registrare già un aumento di circa 2°C risultando uno degli ambienti più vulnerabili e a rischio. Occorre inoltre tenere presente che gli effetti più evidenti, come la fusione dei ghiacciai o gli eventi meteorologici estremi, possono avere conseguenze drammatiche non solo a monte ma anche a valle. Gli effetti dei cambiamenti climatici in montagna interessano, insomma, una fetta di popolazione ben più ampia di quella che ci vive. Da questa conferenza emerge quindi con forza la necessità di implementare adeguate misure di adattamento per i territori montani prevedendo innanzitutto la cura e il ripristino di ecosistemi e foreste”.

Come si possono declinare sul territorio gli accordi di Glasgow?

“Siamo parte dell’Unione Europea che con il Green Deal si è assunta impegni chiari e stringenti: a catena le conseguenze per l’Italia e per le Regioni e Province autonome sono precise. Sul tema della mitigazione l’Italia sta dimostrando delle difficoltà a stare al passo con le indicazioni europee, ma a livello locale si può comunque agire: nel caso del Trentino, ad esempio, è stato appena approvato un Piano Energetico Ambientale per il 2021-2030 con cui la Provincia ha espresso le sue intenzioni sulla politica di mitigazione, soprattutto nel settore energetico; su alcuni obiettivi c’è già un anticipo di alcune novità che l’Italia deve ancora recepire.

Il ritardo più grave, a livello nazionale, è sul tema dell’adattamento, particolarmente importante per il contesto montano: stiamo ancora aspettando l’approvazione del “Piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” che dovrebbe garantire il necessario supporto e il coordinamento tra una regione e l’altra e così gli enti locali stanno elaborando autonomamente le loro strategie. Il Trentino ad esempio ha approvato un programma di lavoro, Trentino Clima 2021-2023, che prevede l’elaborazione di una Strategia provinciale di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.

Una maggiore cooperazione tra le regioni è auspicabile se pensiamo in particolare al tema della tutela ambientale e del ripristino dei sistemi naturali intaccati: preservare la biodiversità è fondamentale, ma gli ecosistemi non guardano ai confini amministrativi. Sarebbe quindi fondamentale un coordinamento tra le comunità, che devono essere protagoniste, soprattutto per indirizzare le politiche economiche e ambientali verso l’adattamento ai cambiamenti climatici e la preservazione di ecosistemi di cui le comunità stesse fanno parte”.

Ph. Alberto Perer