La memoria del ghiaccio, per capire il futuro

Il record, sino ad ora detenuto dal 2016, è stato battuto dal 2023, l’anno più caldo dal 1850, secondo i dati pubblicati da Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Unione europea, dedicato al monitoraggio del pianeta e del suo ambiente. Un dato purtroppo prevedibile, per chi studia la criosfera, come il glaciologo del CNR Jacopo Gabrieli, al quale abbiamo chiesto di collocare le indicazioni meteorologiche di questa prima parte dell’inverno, nel contesto climatico generale e di spiegarci le ragioni e l’importanza di Ice Memory, il progetto internazionale riconosciuto dall’UNESCO, che vede come capofila l’Istituto di Scienze Polari del CNR e Università Ca’ Foscari di Venezia, assieme alla Ice Memory Foundation.

Carotaggi ad opera di Jacopo Gabrieli

Ph. Jacopo Gabrieli

Che inverno stiamo attraversando sulle Dolomiti?

«I dati di precipitazione di questo primo mese e mezzo d’inverno meteorologico (che, lo ricordiamo, inizia con il primo dicembre), ci dicono che la quantità accumulata di precipitazione è leggermente inferiore alla media; ma il vero problema è la mancanza di neve: siamo sui livelli dell’anno scorso, ovvero un 40% in meno rispetto alle medie alle quali eravamo abituati. Le precipitazioni, infatti, sono state accompagnate da uno zero termico elevato. Venendo al trend, possiamo dire che il limite della neve sull’arco alpino, stando a uno studio pubblicato nel 2020, si alza ogni anno di 5 metri, il che significa 200 metri in 40 anni. L’Università di Padova ha studiato gli anelli di accrescimento delle piante di ginepro, alcune in vita, altre fossili, per ricostruire la durata della neve al suolo negli ultimi seicento anni: se consideriamo i dati dell’ultimo secolo, risulta che, a 2000 metri, la durata della neve al suolo è diminuita di oltre un mese».

Unire questi due dati consente di vedere chiaramente in quale tendenza climatica si inseriscano i dati meteorologici di un anno, come il 2023, che secondo lo studio del programma Copenicus, è stato il più caldo dal 1850, per l’intero Pianeta. E per la montagna?

«Che il 2023 sarebbe stato l’anno più caldo lo sapevamo, purtroppo, già a novembre… e questo la dice lunga.  A livello globale, l’anomalia è stata di 0,60°C rispetto alla media del trentennio 1991-2020, ma rispetto all’era preindustriale il dato arriva a 1,48°C di scarto, terribilmente vicino al limite di 1,50°C, che ci eravamo proposti di non raggiungere. Nel mese di dicembre 2023, l’anomalia termica sulle Dolomiti è stata i 3,2°C (quasi 5°C nella seconda metà), rispetto al periodo 1991-2020. I colleghi di Meteoswiss hanno studiato la quota dello zero termico degli ultimi decenni e si sono resi conto di un altro dato inquietante: in estate (luglio e agosto) la quota media dello zero termico è di 300 metri più alta rispetto al periodo preindustriale e in inverno si arriva a 500-600 metri».

Veniamo alla condizione dei ghiacciai: al Lagazuoi EXPO Dolomiti è possibile visitare la mostra «Buonanotte Ghiacciai», realizzata in collaborazione con la Fondazione Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Istituto Scienze Polari del CNR e dedicata ad Ice Memory. Perché è importante, per l’adattamento alla crisi climatica, studiare le informazioni custodite nel ghiaccio? 

«Il progetto Ice Memory parte da due presupposti. Il primo: i ghiacciai sono degli archivi ambientali straordinari; negli strati dei ghiacci polari e di quelli montani troviamo informazioni preziosissime sul clima, sull’ambiente del passato e sull’impatto delle attività umane nel corso dei secoli. Il secondo presupposto è che la loro repentina fusione ci sta privando, tra le altre cose, proprio di questa memoria; è come un incendio che distrugge una biblioteca. Durante le nostre missioni preleviamo carote di ghiaccio, alcune vengono analizzate subito, altre conservate nel frigorifero naturale dell’Antartide.

Il team di cui lei fa parte, ha effettuato nel 2023 una missione alle isole Svalbard e una sul Monte Rosa. I dati dovranno essere elaborati, ma c’è qualche evidenza empirica che l’ha colpita?

«Alle Svalbard, le temperature nei giorni della missione erano intorno ai -25°C, dato apparentemente confortante anche se, poco dopo, sono salite drasticamente. Ma la cosa sorprendente è che, a trenta metri di profondità, abbiamo trovato qualcosa di inaspettato, ovvero dell’acqua liquida. Sembra impossibile, ma non lo è: quell’acqua si era immagazzinata negli strati profondi e proveniva dalla fusione massiva degli strati superficiali, avvenuta nel periodo estivo. Immergervi le mani in è stato come immergerle nei cambiamenti climatici; è un’immagine che spiega molto bene la differenza tra meteorologia e climatologia. Sul Monte Rosa abbiamo prelevato campioni dal ghiacciaio del Colle del Lys, notando come, in pochi anni, il ghiaccio, da una temperatura di -8°C, -10°C sia arrivato ormai vicino allo zero».

E veniamo alle Dolomiti, dove i corpi glaciali rimasti sono peraltro a quote inferiori: possiamo confermare a maggior ragione (e una volta di più) che il loro destino è ormai segnato a prescindere dal rispetto degli obiettivi dell’accordo di Parigi sul contenimento del riscaldamento globale…

«Sì, il destino dei piccoli corpi glaciali è segnato. Andare in Marmolada è come andare al capezzale di un familiare che ami con tutto il cuore, ma che ormai si sta spegnendo. Questo, però, non deve deresponsabilizzarci, dobbiamo anzi agire con più forza e pensare al futuro, con una prospettiva al 2100 e quindi non tanto per noi quanto per i nostri figli e nipoti. Il titolo della mostra, “Buonanotte ghiacciai”, è provocatorio, ma dopo la notte ci può essere un risveglio, un raggio di luce e di speranza, se sapremo essere protagonisti di un cambiamento vero».